IL MISTERO E L’ANIMA DEL ROMANTICISMO AL teatro alla Scala di Milano ne LA SYLPHIDE DI PIERRE LACOTTE

« C’è qualcosa nel lirismo de La Sylphide che va oltre ciò che si può immaginare » ha detto Pierre Lacotte « La Sylphide è un tutto, ha un’anima ed un profumo che mi hanno sempre inebriato ». Sotto questi auspici e sotto la personale ed attentissima supervisione del grande ballerino e coreografo francese, artefice di una ricostruzione della coreografia originale di Filippo Taglioni, è andata in scena, per la prima volta sul palcoscenico del Teatro alla Scala, la versione filologica de La Sylphide. Interpreti principali Aurélie Dupont, étoile dell’Opera di Parigi e Leonid Sarafanov, del Balletto Marinski-Kirov di San Pietroburgo. La platea del Piermarini è stata ammaliata ed incantata da una partitura coreografica di incomparabile purezza ed eleganza, tornata in scena, dopo quasi due secoli, lì dove storicamente ha avuto origine. Dagli splendidi ensembles del primo atto, aggraziati e gioiosi, sino all’etereo e struggente finale del secondo atto, il Corpo di Ballo ha fornito una grande prova, sia dal punto di vista tecnico che interpretativo; di particolare rilievo è stata la performance di Antonino Sutera, molto applaudito nel pas de deux degli scozzesi. La Dupont è stata una Sylphide di incantevole grazia, perfetta negli épaulements, nel fraseggio veloce en pointe e nei morbidi ballonnés, capace di far rivivere non solo l’ésprit romantique ma anche la malìa sottilmente seducente che apparteneva alla silfide, alato genio dell’aria, e all’arte rivoluzionaria di Maria Taglioni. Accanto a lei, ha brillato lo stupefacente talento di Leonid Sarafanov, un James giovane e romantico nell’aspetto e nel temperamento, dotato di una straordinaria pulizia tecnica e di un’entusiasmante ed ingenua freschezza. Gli interpreti principali e il Corpo di Ballo sono stati serviti meravigliosamente dalle luci, dagli effetti scenici e dalla direzione particolarmente partecipe del maestro Kevin Rhodes. Se ci si volesse ancora chiedere, perciò, cosa possa trovare il disincantato spettatore contemporaneo in un’arte – il balletto classico – e in un’opera, « La Sylphide », apparentemente così lontane dalla sensibilità contemporanea, si potrebbe rispondere parafrasando la scrittrice Flannery O’ Connor: molti potranno essere convinti che « l »arte debba essere funzionale, che debba fare qualcosa piuttosto che essere qualcosa », ma il compito dell’arte – e in questo caso della danza – è « incarnare il mistero attraverso le maniere e il mistero crea grave imbarazzo per la mentalità moderna ». Il mistero che pervade tutto il balletto è quello ontologico della condizione dell’uomo incarnata dal tormentato James e caratterizzata dall’irrimediabile manchevolezza del reale e dall’asfissiante quotidianità; le maniere sono quegli strumenti, che nelle mani dell’artista rivelano questo mistero centrale. In un’epoca che ci induce a dubitare non solo dei « valori » ma anche dei « fatti », l’autentica inquietudine romantica di questa Sylphide, solo apparentemente stridente rispetto allo spirito agguerrito e cinico dei nostri tempi, riesce a penetrare nel cuore dello spettatore con una grazia e uno struggimento unici, a dimostrazione dell’universalità’ e dell’eterna necessità dell’ineffabile mistero dell’arte.

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